di pallacanestro, basketball, košarka e altre frattaglie

13 July 2008

coney island's finest?


ora che Gallinari è in maglia nero-blu-arancio
è d'uopo un piccolo insight dell'ambientino
dove andrà a trovarsi con una tranche de vie
di (purtroppo) «nemo propheta in patria»
stephon marbury







(da Best Seat in the House di Spike Lee,

traduzione del vs. aff.z.natiss.mo - tutti i diritti riservati)

Allora, volete parlare dei Marbury? In questo caso, bisogna raccontarla in un certo modo, perché è una storia unica. E quando dici Marbury, devi cominciare da Donald, il patriarca. Anche lui sarebbe d’accordo, Donald, ve lo do per certo: Direbbe: «Yo, comincia da me.» Girava una battuta a Coney Island, Brooklyn, il regno della pallalcesto dove sono cresciuti i Marbury. Si diceva che Donald aveva gli spermatozoi da NCAA, perché tutti i suoi figli ci avevano giocato. E a lui la battuta non dispiaceva.
C’erano cinque fratelli in tutto, che io sappia almeno. Ma nulla toglie che forse ce n’erano degli altri sparsi qua e là. Erano Eric, Donald, Norman, Stephon e Zacky. Tre fratelli prima di Stef, che è il soprannome con cui tutti chiamavano Stephon. E Stef non è neanche l’ultimo, perché c’è Zacky. È al terzo anno alla Abraham Lincoln High, adesso nel 1997, e pensa già di essere meglio di Stef. ’zzo, tutta ’sta faccenda dei Marbury continuerà anche dopo il 2000, chiaro no? E Donald dirige il tutto. È il sindaco di Coney Island. La madre dei Marbury si chiama Mabel, donna in gamba, brava persona. Tutti vogliono bene a Mabel, ma il sindaco del quartiere è Donald.
Se pensi a quant’è piccola Coney Island, meraviglia che sforni così tanti giocatori, ma quando hai visto com’è fatta, non ti stupisci più. Sarà lunga neanche venti isolati e larga tre. Oltre a Stef e ai suoi fratelli, c’è Mo Brown, che ha giocato a St. John’s. Ce ne sono tanti altri. È un quartiere tutto di projects, case popolari di sedici piani. Ma se ci abiti non sono più casermoni, è casa tua. Ascensore rosso, ascensore verde, ascensore blu: e questo fa un palazzo. Durante l’estate il tuo palazzo gioca contro quelli di fianco. Perciò a Coney Island ci sono una quarantina di squadre che non fanno altro che sfidarsi l’una con l’altra, dall’alba a mezzanotte, con una pausa per il pranzo e la cena, se hai qualcosa da mettere sotto i denti. Se sai giocare, però, qualcuno che ti dà da mangiare lo trovi sempre. E così, quando vai a giocare fuori da Coney Island, sai bene che sei forte, ma non ti viene in mente che è perché hai giocato così tanto.
Del resto, cos’altro c’è a Coney? È sempre stato così, e non è cambiato niente: le passerelle di legno per il mare, Nathan’s, la Wonder Wheel, la spiaggia, il basket, i projects. Non c’è altro. Il basket è l’unico lavoro disponibile a Coney. Venti isolati per tre di larghezza. I campetti sono illuminati, perciò si può giocare tutta la notte. E c’è gente che lo fa: tutta la notte. Se andiamo là, adesso, sono lì che giocano. A O’ Dwyer, che non è il nome del parco, ma dei projects: O’ Dwyer Gardens. Poi ci sono i tre isolati di larghezza: Mermaid, Neptune e Surf Street. Coney Island è tutta lì. E c’è la stazione del metrò. Tutti i projects hanno i loro campetti. Non c’è nient’altro, se non il metrò che ti può portare via di lì. Se percorri 23rd Street, 25th Street, 27th, 28th, 29th, 31st e 32nd Street, girando in lungo e in largo Coney Island per tutti i suoi venti o trenta isolati, vedi tutti questi projects, ognuno con i suoi campetti. E sui campi c’è gente che gioca duro e potete dire quello che volete e pensare di me quello che volete perché dico certe cose, ma l’unico modo di descriverlo è questo: basket, 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno.

(continua...)